Disegnare

Vi siete mai detti “io non so disegnare” oppure “mi piacerebbe saper disegnare”? Beh, io sì.
Molti anni fa, diciamo più di 25, visto che era il 1987, lessi questo libro (chiaramente in un’edizione precedente):
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L’autrice, Betty Edwards, sosteneva che disegnare non è un dono ma è un’abilità e, come tutte le abilità, si può imparare conoscendo le giuste tecniche. Addirittura facilmente secondo lei.

Nelle prime pagine del libro c’erano alcuni disegni realizzati dai suoi allievi con le date in cui erano stati fatti. Tipicamente a sinistra c’era il disegno fatto a inizio corso e a destra quello della fine del corso, dopo due o tre mesi. Ecco un paio di esempi.

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Inutile nascondere che ero molto scettico.
Comunque mi misi a fare gli esercizi, davvero semplici, capendo molto facilmente quello che l’autrice voleva spiegare. In sostanza quando si disegna, ci si deve dimenticare dell’oggetto che si sta guardando, pensando solo a linee, vuoti, punti, colori. Una sedia deve smettere di essere tale e diventare un insieme di linee e vuoti, altrimenti gli disegniamo quattro gambe quando, quasi certamente, se ne vedono solo tre.

Il risultato? Questo fu il ritratto che feci a mia sorella Rita.

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Niente di che, ma se vedeste i miei scarabocchi precedenti, gridereste al miracolo 🙂

Morale: se non sapete disegnare, vi assicuro, c’è rimedio!

 

 

Cueic

Aprile 2001.

Alessandro, che non aveva ancora 7 anni, viene a trovarmi in ufficio in pausa pranzo, proprio mentre sto giocando a Quake contro qualche collega. Mi chiede qualche cosa e io, dopo essere stato ucciso nel gioco, gli rispondo bruscamente con un “DOPO!”.

Senza dire una parola, Alessandro prende un foglio e si mette a scarabocchiare qualcosa.

Alla fine della partita, gli offro una cioccolata, scambio due parole con Lucia e li saluto.

Torno alla scrivania e trovo questo foglio:

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Cito testualmente:

E VIETATO DISTURBARE IL MARCO PER CHE STA GIOCANDO A CUEIC E SE LO FATE SBAGLIARE SI ARABBIA

Ogni tanto un padre deve ricordarsi quanto sa essere stronzo con un figlio e pentirsi amaramente. Per questo l’ho incorniciato e da allora è appeso nel mio ufficio.

Quando lo rileggo mi si stringe il cuore come nell’istante in cui lo trovai… Forse proprio in quel momento ho cominciato a stare sulle scatole ad Alessandro 🙂

Marciapiedi

Sabato sera sono a Milano per bere una birra con il mio amico Carlo.

Piove che dio la manda, non vedo l’angolo di un isola pedonale e lo prendo in pieno con la gomma sinistra.

Spero di averla fatta franca… faccio qualche metro. Non l’ho fatta franca.

Le auto di oggi non hanno la ruota di scorta ma uno schifoso kit. Provo col kit ma capisco subito che non serve a nulla, per cui lo ripongo senza sprecarlo (è di quelli che riempiono la gomma di una sostanza collosa e bianca).

Chiamo il soccorso, arriva dopo più di un’ora e si porta via la macchina.

Vado a piedi con Carlo a bere la famosa birretta con annesso Sushi.

Dormo a casa sua e mi faccio venire a prendere la mattina dopo da Lucia (che per fortuna sta tornando da Venezia).

La macchina è una full rental per cui, a partire da lunedì, capire dove fosse finita, quando avrei potuto ritirarla, se la sostituzione fosse compresa o meno, è una bella impresa.

In ogni caso oggi, mercoledì, finalmente posso andare a prenderla.

Alle 16 sono nuovamente in possesso della mia auto.

È presto per cui vado in un negozio di articoli sportivi a Milano.

Parcheggio.

Prendo lo spigolo del marciapiede con la gomma destra. Niente di che. Non è certamente possibile che l’abbia rotta nuovamente.

Scendo.

Giro intorno all’auto.

Sento un sibilo.

Vedo il piccolo squarcio di lato.

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<cinque minuti di censura>

Riprovo col fottuto kit. Questa volta deve funzionare.

Lo apro e stavolta mi accorgo che ci sono due tubicini: uno per l’aria (quello che ho usato sabato) e uno per spruzzare la schifezza appiccicosa (che sabato, al buio, manco avevo visto).

Tutto fiducioso lo attacco e faccio partire il compressore attaccato all’accendisigari attraverso la portiera destra aperta all’uopo.

La sostanza bianca sembra passare piano piano nel tubicino.

Troppo piano.

Anche stavolta mi rendo conto che non c’è verso.

Stacco il tubicino e lo appoggio per terra.

Mi accingo a spegnerlo, ma vedo che forse la bomboletta era sottosopra, per cui provo a girare il compressorino. Giusto per curiosità.

Effettivamente era così.

Infatti ora il tubicino, staccato dalla gomma, inizia a spruzzare dappertutto quella schifosa sostanza appiccicosa.

E, siccome la portiera destra era aperta e il tubicino si era riarrotolato, lo fa dentro la macchina, conciandola uno schifo di macchie bianche collose e appiccicaticce.

Spengo tutto.

<cinque minuti di censura>

Pulisco alla bell’e meglio l’auto con un piccolissimo fazzolettino, l’ultimo che avevo.

Chiamo il carro attrezzi.

Mi faccio trainare da un gommista e nel frattempo discuto con il trainatore. È dell’Ecuador ed è qui da 15 anni. Ironia della sorte a settembre probabilmente potrei andare proprio là in vacanza. Anche lui vuole tornare nel suo paese d’origine, perché non è più bello come una volta qui, non si lavora bene. Solo che vendere la casa adesso non è il massimo. Un tipo simpatico e sveglio.

Magari era destino che rompessi la gomma per conoscerlo.

No, non regge.

Arrivo dal gommista.

Faccio cambiare le due gomme.

Il gommista le cambia, cambia una luce anabbagliante che era bruciata. “Olio?” mi chiede. Tutto soddisfatto per le mie gomme nuove gli dico di sì, di controllare pure. Incredibile. A quanto pare non c’era una sola goccia d’olio rimasta. Meno male che gli è venuto in mente di verificare perché, dice, la macchina a breve si sarebbe fermata e avrebbe potuto fondere il motore. Ora ho capito il senso di tutto: non ritrovarsi in autostrada con la macchina fusa.

In fondo ho avuto fortuna.

La mamma

La mamma è sempre la mamma. Si sa.

Questa qui sotto è la mia, quando aveva 24 anni (il bambolotto non è finto, sono io a 7 mesi e mezzo, lo potete vedere chiaramente dal colore dei capelli).

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Diciamo che non sono stato un figlio troppo amorevole, anzi, credo di averne combinate di cotte e di crude a questa povera mamma che, come tutte le mamme, ha sempre sopportato ogni mia malefatta. Diciamo non proprio in silenzio, ma sicuramente, alla fine, ha sempre perdonato i miei innumerevoli scherzi.

Uno di quelli che, ancora adesso, spesso ricordiamo alle usuali riunioni familiari (ed è passato diverso tempo visto che io ho ငါးဆယ် anni e lei ancora 24, i buoni osservatori sapranno fare i calcoli corretti guardando con attenzione la foto sopra) è lo scherzo della michetta.

Per chi non lo sapesse, ecco com’è fatta una michetta:

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Mamma mi ha sempre preparato le michette tagliandole a metà in orizzontale, infarcendole con burro e marmellata, salame, nutella® e via dicendo. Ma già da allora la mia indole matematica (per non dire da rompiscatole) le aveva imposto, poverina, di ricomporre sempre la michetta in maniera perfetta. Questa sotto, sempre per esempio, è una michetta ricomposta in maniera quasi perfetta. Sì, ho detto quasi: infatti potete notare che se chi l’ha preparata avesse girato la parte superiore di circa un 5° in senso antiorario, avrebbe ottenuto la vera michetta perfetta.

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Tralasciando il fatto che, probabilmente, una qualsiasi mamma meno buona della mia, ad una richiesta del genere, mi avrebbe scaraventato il tutto in testa, oramai la prassi era consolidata per cui non serviva più nemmeno chiederlo.

La sera dello scherzo accadde qualcosa di diverso.

Eravamo a fine cena e, come al solito, mamma mi chiese si volevo un panino, quella volta con il prosciutto. Io, sempre come al solito, risposi di sì. Mamma si mise a tagliare la michetta fino a che si accorse che il prosciutto era rimasto in frigorifero. Si alzò e andò verso il frigorifero che era un paio di metri dietro di lei.

In quel momento successe quello che il Perozzi di “Amici Miei” definì, e lo dico senza falsa modestia, il “genio” e cioè fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.

Istantaneamente presi una seconda michetta, la tagliai e sostituii la parte inferiore di quella che mia madre stava preparando con la mia, nascondendo sulle mie gambe il resto. Il babbo, silenzioso complice, osservò senza dire una sola parola. Rita e Mauro, sorella e fratello minori che sono incredibilmente sopravvissuti (quasi) indenni alle mie innumerevoli vessazioni, non avrebbero comunque osato parlare. Mamma tornò sulla sedia, farcì il panino col prosciutto e provò a ricomporre la michetta.

Dopo qualche tentativo infruttuoso, poverina, tentò di darmi la michetta assemblata alla bell’e meglio. Io, con assoluta perfidia, le dissi: “Ma Mamma, non riesci nemmeno a sistemarla per benino!”. Con la totale dedizione ai figli che l’ha sempre contraddistinta, mamma mi disse “Sì, scusa, hai ragione, adesso ci provo meglio”. E cominciò a cercare di far combaciare due parti che arrivavano da due michette diverse, dapprima provandoci grossolanamente e via via sempre più piano, fino a farle girare lentissimamente, alla ricerca di una perfezione a sua insaputa assolutamente impossibile da raggiungere.

Non so quanto sarebbe andata avanti la scena, ma mio padre, impietosito e con quasi le lacrime agli occhi per le risate trattenute, dopo un po’ le disse “Ma smettila, non vedi che quel locco ti sta prendendo in giro!” (mio padre è toscano). Mamma mi guardò e io, fino ad allora spietato e impassibile, scoppiai a ridere tirando fuori le altre due parti di michetta, trascinando nelle risate tutta la famiglia.