L’informatica nelle “squole”

Oggi mio figlio Federico mi ha chiesto una mano per completare un esercizio di informatica (frequenta la prima del Liceo Scientifico di Varese).

Non riusciva a rispondere a una domanda. Questa domanda:

Quali tra i seguenti tipi di visualizzazione di Word non esistono? (due risposte)
A) normale
B) layout web
C) layout composizione
D) struttura
E) layout lettura
F) layout anteprima

Lasciando perdere l’assoluta inutilità di una domanda del genere, la cosa ancor più assurda è che per poter rispondere uno deve possedere Microsoft Word 2003. E quindi deve avere Microsoft Windows. Certo, se uno è uno studente può averli entrambi per poco. Per poco. Ma non gratis.

Ma santoddìo noi qui a casa abbiamo Linux e Mac. E sul pc di Federico c’è Windows ma con Word 2010 (non so nemmeno come ci è arrivato). E Word 2010 ha dei menù completamente diversi.

Quindi io, laureato in informatica, non ho saputo rispondere alla domanda di informatica di un libro di prima liceo.

La rabbia mi è montata dentro in un modo così forte che ho cominciato a sfogliare il resto del libro. Un modulo è dedicato all’architettura dei computer. Uno a Windows. Uno a Word. Uno a Excel. Uno a Internet (lascio al lettore come esercizio intuire quale browser viene usato per le schermate di esempio). Uno agli algoritmi. Infine gli ultimi quattro sono dedicati a Pascal. Nel cd-rom allegato al libro c’è una versione di Dev-Pascal: un .exe per Windows.

Una perla tra tutte. In uno degli esercizi del modulo dedicato a Word si chiede allo studente:

A) Posizionati nella diapositiva numero 4
B) Aggiungi come sottotitolo il testo “Bill Gates e Windows…

Senza parole… Mi verrebbe da citare la risposta attribuita a Frank Capra quando gli chiesero un parere sulla colorazione del suo capolavoro in bianco e nero La vita è meravigliosa:

Il mio unico commento è qualsiasi parolaccia.

Di solito si evitano di fare i nomi. Quindi io farò solo i cognomi: il libro è CORSO DI INFORMATICA di Camagni e Nikolassy, Casa editrice Hoepli.

Invece di criticare e basta, sport nazionale da sempre, voglio provare a suggerire a qualcuno con un po’ di coraggio di scrivere un testo di informatica che non richieda l’uso di un prodotto proprietario a pagamento. Un libro che usi un linguaggio di programmazione più moderno e disponibile su tutte le piattaforme. Ce ne sono a iosa: Javascript, Ruby, Python (e dico per ultimo Python per non essere tacciato di partigianeria). Un libro che spieghi non cos’è, ma bensì come si scrive un editor di testi.

E se serve un po’ di divertimento, magari organizzare un torneo di Pybotwar in classe. O, meglio ancora, tra le classi. O, meglio ancora, tra le diverse scuole. E magari nella quinta classe si può arrivare a spiegare come si scrive uno snake in Javascript in 210 bytes. O un tetris in 140 bytes. Così all’università uno ha poi la speranza di capire come scrivere un buon giocatore di scacchi in meno di 5 kb.

In fondo i giochi sono sempre una molla fortissima per i ragazzi. Sicuramente più di un foglio elettronico o di un editor di testi.

Quanto mi piacerebbe che questo post arrivasse a qualcuno in grado di cambiare le cose. Se veramente siamo divisi l’uno dall’altro da sei gradi di separazione, in fondo basterebbero tre o quattro forward giusti…

Se non si punta in alto, ci si ferma in basso. O no? 😉

L’infinito a portata di mano

Visto che hanno appena trovato (forse) un neutrino e mio figlio Alessandro ha passato indenne anche la seconda liceo scientifico (con voti in matematica che spaziano dal 3 e mezzo all’8 e mezzo, la professoressa gli ha detto “Beri, non ci facciamo mancare nessuna emozione, eh?”), mi è tornata in mente questa bella intervista a Camilleri che lessi su un numero di Le Scienze del 2007.

L’infinito a portata di mano.
di Andrea Camilleri

Con grandissimo dispiacere di mio padre, che era fisico-matematico, arrivai alla terza liceo che ancora non sapevo memorizzare le tabelline. Figuratevi se potevo affrontare la trigonometria o la fisica! La mia professoressa, rendendosi conto che ero assolutamente negato, fece con me un patto: mi avrebbe dato la promozione col sei se in tutte le altre materie scolastiche avessi avuto almeno sette. Rispettai il patto e lei lo rispettò. Fortunatamente non dovetti sostenere il terribile esame di maturità perché, nell’aprile del 1943, gli eserciti alleati erano alle porte della Sicilia, sentivamo il rombo delle cannonate su Lampedusa, e quindi fummo giudicati per scrutinio. Venni promosso e da lì a due mesi, chiamato alle armi con un anno d’anticipo, mentre gli alleati sbarcavano, sostenni il mio vero esame di maturità alla vita. Devo confessare che, col trascorrere degli anni, ho sempre più rimpianto di non essere mai riuscito a capire nulla di matematica e fisica. Ho persino tentato di leggere libri divulgativi che anche un bambino di sette anni riusciva a comprendere, niente da fare. Con l’età, ho cominciato a giudicare questa mia incapacità come una vera e propria menomazione connaturata, una malformazione di nascita, un brutto handicap che m’impediva una più ampia comprensione del mondo. La discreta conoscenza letteraria della quale sono in possesso riesce infatti solo a spiegarmi, in parte, i comportamenti umani, i loro complessi rapporti con gli altri e con la società, ma non riesce minimamente a illuminarmi su elementari fenomeni quotidiani come il sole, l’aria, la luce, la terra, il fuoco. Sono insomma un rappresentante mezzo cieco di una delle due culture, per parafrasare un titolo di Snow, che anela ormai invano a conoscere un minimo, un qualcosa, dell’altra cultura perché pensa che ne uscirebbe enormemente arricchito. Così, per rifarmi, assiduamente leggo le pagine scientifiche dei giornali e, per quel poco che riesco a capirci, m’entusiamo ad ogni nuova scoperta, a ogni nuova avventura scientifica. Sono come un tifoso che esulta a bordo campo ma non saprebbe calciare un pallone. Perciò la prima volta accolsi con entusiasmo l’invito a visitare i laboratori del Gran Sasso. Ci entrai, lo confesso, con un certo batticuore che si accentuò non appena mi resi conto della vastità incredibile di quei laboratori sotterranei. La prima impressione che ne ebbi fu quella di vedere tre enormi cattedrali viventi messe l’una accanto all’altra. Io, che non sono credente, ne ebbi come un senso di religiosità laica. Tanto che, fumatore accanito come sono, spontaneamente, per rispetto, mi passò la voglia d’infilarmi una sigaretta in bocca, non avevo bisogno d’obbedire ai grandi cartelli sui quali c’era scritto ch’era vietato fumare. Mentre mi parlavano delle ricerche in corso, tra le quali una che avrebbe spedito dei neutrini da Ginevra, io mi incantavo dietro agli stupendi nomi coi quali venivano designate le varie ricerche, nomi certamente attinenti alle diverse specificità, ma che mi aprivano la fantasia, me la liberavano, mi trasformavano le grandi apparecchiature in immense suggestioni in grado di trasportarmi in un fantastico viaggio verso il Sole e le stelle, assai più che delle comuni astronavi. Da lì a poco mi trovai commosso fino alle lacrime. Fu quando mi venne spiegata l’importanza fondamentale di una certa quantità di piombo ritrovata in una nave romana affondata oltre duemila anni fa: quell’antico piombo aveva permesso di studiare meglio i neutrini. In quel momento compresi che dentro quel laboratorio era il tempo stesso a concretizzarsi, a rappresentarsi interamente nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro.

Ci sono tornato una seconda volta, mi hanno fatto vedere la gigantesca apparecchiatura per la ricerca dei neutrini ormai in pieno corso, ancora una volta non ho avuto nessuna voglia di fumare. Mi sono ripromesso di tornarci almeno una terza volta. Perché? Perché mai come lì, sottoterra, in un ambiente chiuso, ho provato la sensazione vertiginosa di avere l’infinito a portata di mano.