Kevin Magee

Nel lontano 1982 avevo 18 anni, ero così e giocavo a pallacanestro nelle giovanili della allora Cagiva Varese. Uno dei miei compagni di squadra è conosciuto e ha avuto una discreta carriera nella serie A, vincendo addirittura uno scudetto nel 1999. Oggi è il presidente della Pallacanestro Varese e il suo nome è Cecco Vescovi.

Ma questo post non è dedicato a lui, bensì a un giocatore che militava nella prima squadra di quei tempi: Kevin Magee.

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Durante un allenamento con la prima squadra mi toccò curare questo grandissimo giocatore. Io ero sicuramente al top della mia condizione fisica, dopo mesi di sette allenamenti a settimana, e mi illudevo che avrei potuto difendere contro Kevin.

Ricordo quell’azione perfettamente, come se fosse questo preciso momento.

Ero sul fondo del campo e tenevo il piede sulla linea, appena dentro l’area del tiro libero, per evitare che mi superasse sul fondo. Braccia larghe. Piegato sulle gambe. Pronto a fermarlo.

Kevin mi guardò per un istante, sorrise e, come se niente fosse, fece un passo e mi saltò. Sì, semplicemente mi saltò. Lui era alto 2 metri e 3 centimetri, ma io sono comunque un metro e 94, eppure ricordo che vidi le sue ginocchia all’altezza dei miei occhi e, piegandomi all’indietro per via del suo peso, lo vidi schiacciare a una mano. In quel momento capii che il basket di alto livello non faceva per me. O meglio, che io non facevo per lui.

Kevin Magee è morto in un incidente stradale nel 2003 e ha lasciato la moglie e tre figli. Ho scoperto questa cosa pochi giorni fa e la notizia mi ha colpito come se fosse scomparso un mio vecchio amico.

Forse, anche se lui non ha mai saputo il mio nome, è davvero così.

Beata Ignoranza

Voglio un figlio. Non desidero altro. Mia moglie e io lo stiamo aspettando da molti anni. Siamo praticamente disperati. Ma confido nel buon Dio…

Sono molto preoccupato. Adesso ho un figlio. L’ho aspettato tanto e quando finalmente è arrivato sono rimasto di sasso. È nato piccolo e gracile. I dottori dicono che è sopravvissuto per miracolo e che avrà una vita difficile e faticosa. Perché proprio a me?

Adesso ha quasi due anni, mangia poco, non parla, si muove anche meno e non da segno di miglioramenti. Passa tutto il giorno seduto sul suo seggiolone a battere le manine ritmicamente. Non sa fare altro.

Ora ha tre anni. Ha imparato solo poche parole e le ripete tutto il santo giorno: “Babbo, mamma, due, sette, uno, otto, babbo, mamma…” Non ne posso più. Sì, lo so, siamo nel 1700 e i dottori fanno miracoli, ma le speranze sono nulle. Eccolo che ricomincia… Basta con quella nenia! Eulero! Ti ho detto di stare zitto!…

Racconto scritto il 23 marzo del 1995, all’una e 51 e 53 secondi, per i miei amici di Hal BBS (grazie Bruno!).

Sonno vs Fame: 1-1

Nel riordinare i file sul pc ho scovato una serie di filmati divertentissimi dei miei pargoli. Questo è uno dei più divertenti in assoluto, l’ho visto 100 volte e ho riso 100 volte 🙂

Il protagonista è Alessandro e il camerawoman è Lucia che, da buona mamma, non ha resistito e dopo due minuti circa ha decretato il pareggio tra Sonno e Fame (io avrei aspettato ad oltranza!).

 


 

Mia moglie ha salvato una persona (e ha salvato pure me!)

Giovedì scorso Lucia, io e nostri due figli siamo andati a cena in una pizzeria di Varese. All’uscita, verso le 22 e 30, ci avviciniamo all’auto, parcheggiata vicino a un piccolo parco poco illuminato. Mentre accendo l’auto, Lucia dice “hai visto quell’ombra nel parco? Sembra una persona distesa”. Io, dubbioso, dico: “Ma va, non c’è nulla” e avvio l’auto. Dopo pochi metri lei insiste “Guarda che mi pare proprio di aver visto una persona!”. Io, sempre scettico: “Sarà un ubriaco”. Lei: “E se poi muore assiderato?”. Io, sullo scherzoso andante: “Legge di Darwin, se l’è cercata”. Altri 100 metri e lei: “E se c’è davvero e poi muore sul serio?”.

A quel punto ho avuto un flash e mi sono visto la mattina dopo mentre leggevo sui giornali la notizia di un morto assiderato a Varese, perché inciampato in un parco e in seguito ignorato da decine di persone. Ho invertito l’auto e sono tornato indietro.

Lo ammetto, continuando a pensare che Lucia avesse visto lucciole per lanterne, riparcheggio l’auto puntando gli abbaglianti accesi verso il parco. Per la miseria, c’era veramente una persona distesa! All’apparenza un’anziano per via della testa quasi bianca. Scendo e mi avvicino cautamente e, a pochi metri, mi accorgo che in realtà è un giovane col cranio rasato, disteso a faccia in su, con le braccia allargate. Chiedo “Tutto bene?”. Nessuna risposta. Mi avvicino di più e a un paio di metri noto che, pur avendo gli occhi chiusi, non sembra dormire. Ripeto “Ehi, tutto bene?”. Ancora silenzio. Arrivo quasi a toccarlo, mi chino e mi viene un colpo: il ragazzo tiene nella mano un grosso coltello da cucina insanguinato… Urlo a Lucia “Stai indietro! Ha un coltello!” e, mentre dico queste parole, noto che ha la tuta aperta sul davanti, una pozza di sangue sulla pancia e il polso sinistro squarciato. Chiamo subito ambulanza e carabinieri. Arrivano, lo portano in ospedale, mi interrogano, torniamo a casa dopo circa un’ora.

Il giorno dopo scopro per vie traverse (maledetta legge sulla privacy!) che si è salvato, sembra mancando di poco l’aorta. Due giorni dopo, invece, per via di una lussazione all’anulare (lo sport fa bene, si sa, anche quando due falangi dell’anulare destro si sovrappongono!) vado al pronto soccorso. Alla fine della mia “riparazione” (stecca per due settimane) comincio a indagare per capire dove stia il ragazzo (maledetta legge sulla privacy! L’ho già detto?). Una quindicina di minuti in cui ripeto la storia 4 o 5 volte, strappando piccole dosi di verità ad ogni giro, mi portano alla soglia della sua camera. Vuota! Un infermiere passando mi dice “Sta cercando XXX? (maledetta legge sulla privacy!) È là, in sala d’attesa con la famiglia”. Vado in sala d’attesa e vedo il ragazzo, in piedi, con la piantana della flebo di fianco e il polso bendato, che parla con una signora e un altro paio di persone. Mi avvicino cautamente e, quando mi vedono, tutti si bloccano guardandomi. Al ché chiedo timidamente “Scusami, sei tu il ragazzo che si è fatto male giovedì?”. “Sì”. “Ah, io sono quello che ti ha trovato”. La signora, quasi certamente la madre, mi ringrazia e fa per abbracciarmi. Io la fermo dicendo “Guardi, non serve, è tutto merito di mia moglie. È stata lei a vederlo e a insistere per farmi tornare indietro”. Poi rivolto a lui “Sono venuto solo per vedere come stavi, mi fa un sacco di piacere vederti già in piedi.”. Scambiamo ancora qualche parola, ci salutiamo e, mentre mi giro per tornare a casa, lui dice “Ringrazia tua moglie”.

Sì, devo proprio ringraziare Lucia. Se non fosse stato per lei, credo che il rimorso non mi avrebbe lasciato per tutta la vita.